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Da sempre la scultura si colloca al di là della soglia, questa si dispone in misura di confine e ostenta se stessa come limite, sortilegio magico dell’apparizione: al di qua l’occupazione dello spazio, alla maniera delle cose, di tutte le cose che abitano i quotidiani paesaggi del mondo; al di là, invece, l’alterità scandalosa della forma, irriverente della ritualità della natura. Racchiusa nella sua essenza, la scultura si presenta in scena nell’oggettività della propria concretezza, “terrorizzando” però il sistema della visione: essa proclama la propria alterità nel momento stesso in cui questa si identifica in una forma reale. Magia e sortilegio. Ma non basta. Infatti, la soglia prefigura la possibilità di oltrepassare uno spazio, di penetrare in altre “stanze” che non siano quelle già conosciute e praticate. A pensarci bene siamo già all’interno della riflessione cara a Borghi, o per lo meno stiamo introducendoci nel tema che costituisce lo sfondo al suo stesso operare in arte. Borghi conosce bene i sortilegi della scultura, antico tra gli antichi linguaggi, eppure l’unico, ancor oggi, a restituirei il brivido dell’apparizione, la stregata precarietà della coscienza. Conosce, voglio dire, il miracoloso apparire della forma, quel suo farsi spessore della memoria e, al tempo stesso, quella sua fuga utopica nel sogno che non ritorna, che non ha lidi cui approdare se non l’infinita perseveranza dell’idea. Su tali parametri egli lavora. Sa che la scultura, quella scultura di cui è custode il linguaggio, e lui solo, è latente oltre la soglia, laddove il tragitto della prassi artistica conduce a conoscenze inattese, ad enigmi ancora inespressi. Sono questi enigmi – sogno dell’animo insonne, ma al tempo stesso insonnia del linguaggio – ad imporsi al pensiero ed al fare, all’idea che presiede la forma e alla forma che invade i percorsi dell’idea. La scultura non è un semplice girovagare per simulazioni di figure o per organizzazione di strutture. Da qualsiasi bordo il problema venga affrontato, da quello figurativo a quello strutturalista, da quello minimalista a quello neoplasticista, la scultura è comunque radicata nello scandalo dell’apparire, nella presenza ineludibile dell’alterità.

Vero è che oltre la soglia si addensano le nebbie della memoria, il tempo infartato della coscienza, le sedimentazioni e gli umori ammorbati della storia. Borghi si muove, insomma, in un campo minato da incubi e remoti ricordi: miti e mitologie, sfrangiate cariatidi approdate all’ultima spiaggia della memoria, panneggi improbabili e finalizzati al frangersi della luce, ma originati dal sogno dei sensi e dal brivido della psiche. Il quotidiano panorama delle cose si spinge a lambire le remote regioni degli dei; le olimpiche forme della classicità respirano un ossigeno più aspro e terrestre. È difficile dire dove inizia e da dove si sviluppa il linguaggio della scultura di Borghi. Non perché vengano meno i nostri strumenti analitici, o perché egli stesso ci occulti le radici del mondo poetico, ma perché la sua scultura si colloca oltre la soglia della cronologia storica, laddove il linguaggio è diventato esule illustre in spiagge senza tempo. Perciò Borghi attinge, senza premeditate intenzioni, alle “schegge” della storia. Egli sa che un vero e proprio patrimonio di forme e di culture si accavalla nel magazzino del pensiero contemporaneo. Sa che, una volta perduti i valori sociali e spenti per sempre quelli ideologici, i “reperti” rivelano una loro dichiarata nudità: quel malessere permanente che costituisce il senso allarmante del loro sotterraneo messaggio. Ciò premesso, egli è nondimeno convinto che la costruzione dell’immagine e il concretizzarsi stesso della forma plastica sono tutt’altro che interdetti. Essi, epifanici, si ribellano al buio dell’essenza, ma nello stesso tempo sottolineano la precarietà e il loro spiazzamento nel tempo e nello spazio.

Sensualità barocche incrociano asprezze gotiche, e queste s’incrociano con liquori secessionisti, con ammorbate atmosfere simboliste. Quelli di Borghi sono “racconti” contratti nell’ampolla disorientata della sensibilità contemporanea, nello slittamento dei piani storici collettivi su quelli psichici e individuali. I primi sono andati in rovina nelle periferie della ragione, i secondi sono stati contaminati dai tempi accelerati e senza memoria della produzione industriale. Cosa dunque raccontare se non quella stessa contrazione in cui si genera l’implosione di elementi variegati, diacronici, sradicati dal tessuto logico degli eventi, veri e propri miraggi dello sguardo? L’antica “porta” della conoscenza si spalanca ancora sulla luce universale del regno in cui dovrebbe condurre? Proprio una siffatta interrogazione è all’origine del lavoro di Borghi, probabilmente ne contrassegna la ragione più intima e profonda. Se affermativa è la sua risposta, non altrettanto si può dire per l’ordine narrativo delle cose, per la certezza antica dell’immagine. Il “racconto” di Borghi consiste infatti in questa stessa interrogazione, che viene affrontata in quanto “luogo” specifico del suo fare scultura. Riaffiora dunque il principio della “soglia” e con questo si concretizza la forza enigmatica ed evocativa della “porta”, che oggi è oggetto di un suo recente lavoro, ma da sempre rappresenta l’anatema anagrammato della sua poetica. Emergenti da una sorta di lontananza della memoria le figure umane delle sculture di Borghi convivono con reperti di paesaggi, con spuntati fraseggi mitologici. Una traccia di amorose e luminose carezze avvolge membra e panneggi, mondi animali e vegetali, troni improbabili e improbabili levigatezze di pelle: e la scultura approda infine alla policromia. È questa, a tutt’oggi, l’ultima progressione del linguaggio di Borghi. Ma subito ci si accorge che essa era per certi versi già “prevista” e in ogni caso prevedibile. Sorprendeva fino ad un certo punto, infatti, l’ipotesi che l’artista amasse le rapprese interferenze cromatiche del tempo, come ad esempio il verderame che sedimentava sulla superficie dei bronzi e magnificava le spalle arrotondate delle sue divinità femminili. Tutto ciò nutriva l’enigmatica “antichità” delle forme. La policromia delle ultimissime esperienze del nostro artista è tuttavia altra cosa ancora. Nel suo lavoro sembra adesso liberarsi una sorta di alba latente, attraversata da calori solari e da trame plastiche più consistenti. L’enigma centrale del linguaggio di Borghi, che faceva centro sulla precarietà moderna del racconto, trova adesso più compatti stilemi di comunicazione, spezzoni arcaici che rafforzano la sintesi plastica. Borghi si muove peraltro incrociando un più ampio territorio della memoria, senza trascurare le sorgenti nordiche che arricchiscono di magiche cromie il repertorio tardo-gotico. Ma ciò che più conta è il fatto che la soglia che contrassegna i luoghi della scultura è presidiata con più serena coscienza della magia epifanica della forma. Adesso Borghi si concede un racconto maggiormente sfaccettato e per certi versi disteso, anche perché laddove più aspra si fa la sintesi formale più ampia diventa l’evocazione del racconto. Proprio questo rimane uno dei riferimenti fondamentali dell’arte di Borghi: intendo riferirmi al racconto come impossibilità moderna ed evocazione storica, come imbarazzo naturalista e metafora arcaica del linguaggio. In quali modi e ritmi è oggi possibile proporre e sviluppare le forme metaforiche del racconto? Raccontando di quella soglia, ci risponde Borghi, di quella ferita che scandalosamente si rifiuta a noi se percorsa per via di conoscenza, ma che si offre sanata ai ritmi dell’amore. Antico dilemma: si ama ciò che si conosce o si conosce ciò che si ama?
Giorgio Cortenova

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