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“Chi ci libererà dai Greci e dai Romani? . .. ” era la domanda che si ponevano gli intellettuali dell’Illuminismo e del Romanticismo nella certezza che la domanda, allora, non lasciava intravedere soluzioni. I Greci e i Romani non ci avrebbero lasciato mai. La tradizione classica sempre ci sarebbe stata addosso, pesante come il macigno di Sisifo. All’ombra irrevocabile di quel macigno pittori e poeti, ancorché insofferenti, avrebbero dovuto operare. La Modernità ha fatto irruzione nella storia dell’arte e ha tagliato il secolo come una spada, prima con i Positivismi e i Naturalismi, con i manifesti politici e con gli impegni sociali, con le Rivoluzioni e con le Denunce, poi con le Avanguardie. I Greci e i Romani sembravano perduti per sempre. I miti e i codici figurativi che per due millenni avevano dato immagine alla cultura d’Occidente, sprofondavano e sparivano come una Atlantide definitivamente sepolta. Era fatale che tutto ciò accadesse. Ora che il secolo ormai al capolinea ci obbliga a bilanci e a riflessioni conclusive, possiamo dire che c’era una ragione ne !l’eclisse così come c’è una ragione, oggi, nel ritorno. La contestazione dei classici, lari volta contro gli Dei e contro gli Eroi stanno nel codice genetico della nostra cultura europea e ogni tanto ritornano, per cicli ricorrenti, insieme alle Rivoluzioni necessarie che sconvolgono e rinnovano. Ma nella nostra cultura c’è anche la nostalgia della tradizione, c’è il sentimento della ininterrotta contiguità con modelli che continuiamo a sentire, malgrado tutto, vicini e fraterni. Sono suggestioni ed emozioni che in certi momenti della storia si inabissano come fiumi carsici e poi improvvisamente riemergono. In realtà non ci si può liberare dei Greci e dei Romani. Nessuno, nel nostro secolo, lo ha capito meglio del grande rivoluzionario Pablo Picasso. Le sculture di Paolo Borghi (e non sarà senza significato il fatto che esse si collocano alla fine del secolo negli anni fra il1984 e il1999) stanno a dimostrare Venere dei cristalli (particolare) – 1999 – terracotta che il Ritorno non solo è possibile, ma necessario, anzi fatale. Come Rutilio Numaziano scrisse il suo “De Reditu” allontanandosi da Roma saccheggiata dai Barbari, portando negli occhi e nel cuore la commossa memoria di quella violata maestà, così Paolo Borghi si allontana dal nostro secolo splendido e feroce, portando con sé le icone degli Immortali. Quasi volesse trasferire nel nuovo Millennio le ragioni stesse della Classicità.

Paolo Borghi sa che la città degli Immortali è stata devastata dalla Modernità così come Rutilio Numaziano sapeva che la sua Roma era stata irrimediabilmente segnata dal ferro e dal fuoco dei Barbari. Il recupero non può che avvenire sotto il segno della nostalgia e del rimpianto e può realizzarsi solo per segmenti disarticolati che la memoria e il sogno ricompongono. Quando l’arte contemporanea si guarda nell’arte antica sa di contemplarsi in uno specchio infranto. Se così non fosse l’artista cadrebbe nella gelida palude dei calchi antiquari e dello sterile citazionismo. Per Borghi come per gli artisti contemporanei che hanno scelto l’Antico e le mitografie classiche a stella polare del loro percorso espressivo (penso a Igor Mitoraj ma anche a Savinio e a De Chirico) la contemplazione dello specchio infranto è possibile solo a patto di utilizzare le chiavi interpretati ve che ha messo a disposizione la Modernità. Esse sono due, tutte e due necessarie: il Simbolismo e il Surrealismo. Il Simbolismo, affinché le immagini antiche diventino segno e figura del tempo presente; il Surrealismo perché il tempo presente, vestito di antiche sembianze, assuma un significato assoluto, “metareale” e “metastorico”. Accade così che le sculture di Borghi diventino enigmi, sciarade filosofiche, allusioni a un “altrove” che abita la nostra anima e attraversa i nostri sogni prima di manifestarsi nel mondo visibile. Il Simbolismo e il Surrealismo di Paolo Borghi utilizzano alcune figure base scelte nel repertorio infinito della storia dell’arte: una di queste è l’Isola dei morti di Bocklin, l’altra è l’immagine dell’uomo e della donna adagiati, frontali e simmetrici il volto e il busto alti sul gomito, come nelle urne funerarie etrusche. Poi ancora l’Apollo e Dafne di Bernini. A queste figure base, da intendere come magneti emotivi o piuttosto come specchi dell’anima e continuamente scomposte. Sulla scogliera- 1999- bronzo 155 x 94 x 39 cm (Collezione Contini- Venezia) sezionate, rielaborate, si avvicinano in visite silenziose gli Dei, gli Eroi, i Centauri insieme alle montagne, ai fiumi, alle città.

Paolo Borghi ha una concezione del mondo panteistica, metamorfica e antropomorfa. Panteistica perché egli sa che Dio (o gli dei) abitano le cose, metamorfica perché tutto incessantemente cambia e trasfigura sotto il cielo, antropomorfa perché le mutazioni e le metamorfosi assumono forma umana. È questo, probabilmente, l’aspetto più affascinante del suo “surrealismo classico”. È bello immaginare che le nuvole del cielo, i grandi fiumi che solcano la pianura, le maestose montagne e le città, siano vigilate da esseri meravigliosi, enigmatici ed immortali. E che anzi le pianure e i fiumi, le montagne e le città, siano “quelle” divinità, forse benevole, forse indifferenti, sempre imperscrutabili. C’è un aspetto della scultura di Paolo Borghi che è giusto sottolineare perché è connotazione primaria e irrinunciabile della sua poetica: la perfezione tecnica, la suprema qualità del mestiere. Il suo metamorfico Olimpo, la sua parnassiana Città degli Immortali, esigono silenzio e splendore. È lo splendore dei mirabili bronzi patinati e trattati con perizia da orafo ( Le Alpi, Orizzonte lontano, Nel Vento di Morgantina, Figlie della Notte) è il silenzio appagato dei nobili materiali (il marmo, la terracotta) quando sanno che l’artista li ha toccati con sapienza di mano pari alla sapienza del cuore.

Antonio Paolucci

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