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Non possiedo una barca ma, quando sono dalle mie pani di Moncemarcello, scendo fatalmente a Bocca di Magra per andare a spasso su quella di un amico che mi fa fare un giro nel golfo della Spezia. Là, in mezzo a quel Mare Ligure, ci sono due isolotti, il Tino e il Tinetto che guardo riconoscente per la somiglianza che uno di loro ha con un quadro del pittore Arnold Bocklin da me molto amaro. In cima a quell’isolotto c’è una piantagione di cipressi scuri, di quel verde che al contrario di altri verdi che scanno nella pittura ci fa convinco che esista la malinconia che ci strazia. Con un fantasma. Quell’esempio della natura con fantasma ha suggerito a Bocklin di decidere che la piccola isola da lui dipinta verso la fine dell’ottocento, a immagine o somiglianza di quella che sta nel Mar Ligure, si potesse chiamare “L’isola dei morti”. Anche Giorgio de Chirico, prima d i diventare ancora più misterioso quando il suo Ebdomero “fece in barca il giro della sua stanza” era passato di là, per gli stessi quadri, ritraendo isola e fantasmi, centauri e ninfe pazzi d’amore era le rocce e il risucchio delle onde del mare: fantasmi avvolti in un lenzuolo bianco con la faccia nascosta perchè noi guardatori di quadri potessimo lasciarci più di un pensiero.

Mentre la barca con il motore a due cavalli si spostava lentamente per far attecchire dentro di me le proporzioni di quelle rocce e di quelle piante verdi così scure da sembrarmi atleti nerboruti, ho visto nel bollore del mezzogiorno estivo – l’ho proprio vista, non me la sono sognata – la piccola isola bockliniana muoversi alla stessa velocità della nostra barca, o di quella a remi del giovane Ebdomero, staccarsi dagli ormeggi ai quali scava legata da mille anni e venirci dietro, lentamente, anche lei a remi , senza quasi increspare l’acqua nella quale scava immersa. Era un’isola galleggiante che, quando un poco di vento decise di animarla, incominciò a ruotare su sè stessa, per lasciarsi guardare. L’estate scorsa a Cortina avevo incontrato nella galleria di Stefano Contini lo scultore Paolo Borghi e lui mi ha raccontato quasi la stessa cosa. No. Mi ha detto di più. Perchè lui è convinto che il quadro dell’“Isola dei morti” di Bocklin sia una scultura, un quadro plastico ha detto, e non un’isola ferma e immobile: e che si muoveva nel mare per farci vedere come era fatta. Che corpo avesse. Com’erano fatte le sue rocce, la chioma e l’altezza di quelle piante così scure, nerborute come degli aderi e cucco l’insieme delle architetture come può essere la forma rotonda di un piccolo battistero che sovrasta l’acqua del mare.

Ho sempre pensato che le sculture di Paolo Borghi non siano nate dalla montagna, ma dalle acque del mare. Che tutta la sua struttura in terracotta policroma in cima alla quale sta una figura femminile ed un’altra maschile che la sorregge, o la possiede – visco come, e dove, lui ha sistemato l’uomo dietro la schiena della donna – sia una terracotta di rocce lavorare dall’acqua del mare, frastagliare dalla passione che l’acqua ha nei confronti delle insenature della terraferma. E che la spinta incessante di quelle onde marine per stravolgere, rosicchiare, anche di un paio di millimetri al mese, la forma delle rocce, è proprio quella dell’acqua di mare che cerca di scrostare la terraferma perché la faccia finita, una buona volca, di stare lì, ferma immobile. A dare questo movimento non dissimile da quello dell’acqua, ha pensato lo stesso Paolo Borghi: un grande incantatore non di serpenti, ma di movimenti di tipo tellurico. Borghi respira come se avesse il mare dentro il naso. E respirando dà una forma alla vita di chi osa respirare, e costruisce il contenuto di quell’isola della quale abbiamo parlato. Al punto che il suo stesso albero genealogico sta seduto in cima alle rocce di quell’isola avendo, come complice, quel piccolo battistero bockliniano, gli alberi verde scuro e le altre forme che fatalmente, ch i tiene le mani nella pasta della terracotta può far germogliare a seconda del fiato che gli resta per aver creduto nella propria isola. Che può avere dimensioni anche grandiose: come è grandiosa la prua di un’isola guidata da un uomo e da una donna incastrati: e da Borghi fatta diventare lunga come una nave. Come è grandiosa una chaise longue nei confronti di una sedia.

Ma sempre di rocce in mezzo all’acqua e all’aria per respirare deve trattarsi, perché sono stati gli scultori greci ad inventare l’aria che muove quei personaggi. E allo stesso modo il nordico Paolo Borghi ha sentito respirando con il naso, che turco ciò che sta in forma di scultura deve avere dentro l’aria. Per respirare. E se non respiri beato quando sei davanti a una scultura, allora vuoi dire che quella scultura è senza vita. Da quali altre manie della vita è posseduto Paolo Borghi Mi sembra che sia convinco che le sue donne, felici di essere nate con delle bellissime terre, dei dolcissimi profili , dei nasi che g uai a romperli come è sempre capitato ai nasi delle sculture antiche: nate con delle schiene lunghe come le gambe delle più belle nuotatrici che si siano viste allenarsi in una piscina, non possano sopravvivere e farsi ammirare se non hanno, alle spalle, ben stretto alla loro schiena, un uomo che deve sentirsi ispirato alla sola idea di essere stato messo lì. Appiccicato alla donna che ltti si sta prendendo da dietro. È una immagine non passeggera, è quasi un punto fermo nella fantasia dello scultore. Per lui la donna deve essere sistemata in quel modo voluttuoso. Può ricordare la scultura etrusca degli sposi uno accanto all’altro nel letto. Ma Borghi li ha appiccicati perché non ci siano dubbi sulla qualità della passione di stare incastrati, lì nello spazio marino in cima al quale i due preferiscono vivere, efebi della seduzione. Ragione per cui non vedo, per il momento, altra soluzione a questa sua seducente, intensa infermità amorosa.

Giorgio Soavi

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