Paolo Borghi
“La natura […] non va con contrapesi quando essa fa li membri atti al moto nelli corpi animali ma vi mette dentro l’anima, desso corpo compositore”
Leonardo da Vinci, Studi anatomici, f. 114v
Si può guardare con altri occhi al fare di questo scultore contemporaneo, classico e anti-classico, alla sua poetica struggente, tenendo ben presente l’unicità della posizione assunta da Paolo Borghi nel firmamento artistico contemporaneo; occhi che, finalmente, possono sottrarsi alla banalità della vita moderna, liberandosi di tutta quell’ottusità opaca che abita la mondanità per mettere a fuoco, piuttosto, l’eterno mutare della materia e delle forme che determina le stesse essenze essenti d’ogni sua opera, richiamanti in questa loro leggendaria metamorfosi le osservazioni rivolte da Leonardo da Vinci al mondo inteso come un essere vivente. Con questo scultore contemporaneo – anche grazie a un serrato confronto con Paolo Portoghesi che per primo ne ha rilevato l’eleganza formale e l’inclinazione leggendaria che chiama in causa pariteticamente natura, arte, architettura – si è aperta e chiusa un’epoca: la stagione post-moderna. Al tempo stesso, si è in presenza del mito. Si può dire apertamente di Paolo Borghi e della sua opera quel che ne costituisce l’essenza: una scultura mitopoietica.
Al di là del tempo e dello spazio ordinari, le sculture di Borghi sono avvolte in un’aura magica e di per sé sfidante poiché vivono in una dimensione metafisica (nell’accezione heideggeriana) e anzi ne rivelano una possibile personificazione plastica. Contestualmente, manifestano in sé un tempo geologico riecheggiante, si direbbe, a parte il Focillon, un rilievo leonardesco presente nel Codice Atlantico: “Io truovo […] i monti, ossa della terra, colle loro larghe base penetrare e elevarsi infra l’aria, coperti e vestiti di molta altra terra”. Per questo l’incontro con le opere di ultima generazione di quest’artista, provoca un duplice problema: innanzi tutto un problema percettivo che implica una precisa Gestalt, in secondo luogo un problema narrativo che chiama in causa il rapporto dialettico che da sempre ha governato la relazione tra l’uomo e la natura, impersonato da singolari forme metamorfiche. Aguzzo lo sguardo, tendo l’orecchio, accarezzo con mano tremante l’ultima e attuale forma plastica sua data da due-tre sculture inaspettate e commoventi, create da Borghi nell’isolamento pandemico ed ecco che una delle sculture sembra sussurrarmi: “È tempo di levare gli ormeggi, / è tempo di mutare lingua, / è tempo di spegnere la lanterna / sulla porta”, versi di Marina Cvetaeva. Versi composti dopo il tragico ma inevitabile ritorno in Russia, o meglio nell’Unione Sovietica staliniana, nuovamente esule in madrepatria, abbandonata alla propria deriva, all’annunciata perdizione. Ma versi rivolti alle altre opere che la precedono d’un soffio e da cui questo dispositivo prende commiato, allontanandosi verso inesplorati orizzonti. Torno a esaminare più e più volte questa scultura confrontandola con le altre che la precedono annunciandola, e l’accompagnano, condividendone la sfida. Prendo atto, nel corso dell’ultima visita, che tutte le ultime e attuali sculture di Borghi hanno mutato forma.
L’una ha svelato, come accade all’interno del san Giorgio di Donatello che occupa una delle edicole esterne di Orsanmichele, a Firenze, una vitalità e un movimento interiore che attribuisce con un’energia rattenuta e vibrante anche un’anima alla scultura, dando forma visibile al pensiero che precede l’azione, l’altra si è messa a danzare dopo essersi spogliata del superfluo e aver assunto piuttosto una formatività plastica eroica, mentre invece un’altra ancora si è fatta d’una possanza monumentale e ferma, immota come una montagna. Tutte quante manifestano un’epica splendente. Tuttavia questa loro epicità è recitata a voce bassa, forse per non destare la materia. In ogni caso, sembrano trattenere il fiato nel mentre animano una spirale o una sinusoide che asseconda il passo, il gesto, la postura o lo sguardo della donna generata dal ludo geometrico che governa la massa scultorea del poliedro e tutto, adesso, appare come rattenuto in una sospensione magica. L’opera che ha parlato finisce per lanciare un urlo lacerante privo di suono. Un’altra opera sussurra con voce afona e impastata di terra di fusione versi che, sul momento, non colgo. Assieme questi ultimi creati di Paolo Borghi mi sollecitano a compiere nuove esplorazioni, mi costringono a un altro vedere. Eccomi intento a esplorare i pendii, le valli, le curve dell’armonico e mosso volume loro, le superfici e gli spigoli di questi poliedri straordinari. L’occhio si perde in queste forme armoniose richiamanti – restiamo legati ancora un po’ al mondo russo poc’anzi rievocato – Musorgskij sottobraccio a Igor’ Stravinskij, ma anche a Satie, dal momento che Parigi è sempre in agguato dietro l’angolo. Nel mentre l’ultima scultura in lavorazione, essa pure parlando basso, recita con Anna Achmatova: “Da che rovine parlo, / da che baratro grido? …”. Torno a fissare questo e gli altri dispositivi di nuova generazione di Paolo Borghi, fino a restarne abbagliato. È indubbio lo scarto compiuto dall’artista che ha trasfigurato la sua stessa propensione mitopoietica, quella propensione che fa recitare da sempre ai suoi creati i frammenti dei presocratici, da Empedocle a Parmenide, da Anassimandro a quant’altri.
Recita ora come un oracolo, una scultura danzante, una di queste opere ultime di Borghi, con la voce inconfondibile di Achmatova, per avvertire: “… udranno sempre la mia voce, / sempre ancora le daranno ascolto”. Sono ritornato così un’ultima volta nell’atelier di Paolo Borghi con queste immagini negli occhi, con il ricordo di questo versificare nel cuore, con nella mente i sapori, i colori, i volumi armoniosi che sollecitano il desiderio di un reincontro; sono tornato per osservare questi ultimi dispositivi di Paolo, queste sue sculture di ultima generazione da mattino a sera, con l’intenzione di ricavarne quanto ancora non ero riuscito ad afferrare. Ora alcune terre sono state trasposte nel gesso e hanno mutato pelle, letteralmente, hanno cambiato volumi e misure, assumendo un’intima vitalità, una forza nuova, una vibrazione che prima non possedevano. Altre – una o due – sono ancora in lavorazione e così in due differenti occasioni ho potuto assistere al lavoro di Paolo e finalmente, nel ripresentarmi da lui, nel suo atelier, l’ho sorpreso nuovamente impegnato a modificare impercettibilmente una curva ascendente, a far scivolare come una rapsodia (Ghershwin?) un profilo discendente riecheggiante, in effetti, nuovi orizzonti figurali e altre inferenze musicali. L’artista interviene per via di levare e di mettere, indifferentemente, rallentando l’azione, concedendosi pause di riflessione, azzardando varianti impercettibili allo scopo di perfezionare le sprezzature, le accelerazioni, le pause, i pieni e i vuoti di un volume.
In merito a un secondo dispositivo, ho potuto seguire in presa diretta lo scultore mentr’era impegnato a mutare spessori, pesi e misure d’una forma. In un’altra scultura ancora, mentre l’osservo, il mio interlocutore dà vita a modifiche plastiche ora di questo e ora di quel dettaglio figurativo. Infine, egli riesce a trasfigurare la forma in altro da sé fino a che non prende vita, una vita propria – unica e inimitabile – che manifesta un’anima raccolta entro la materia. Non ha alcun senso, ho constatato, recuperare nei confronti di questi organismi scultorei che mi fronteggiano, possibili e impossibili ricorsi ora a questo e ora a quell’autore – tanto per non far nomi Marino, Moore, Hepworth, Manzù, ma anche Canova, tanti altri –, mentre invece ha senso e valore cercare di identificare la ragione profonda di queste forme che richiamano persino le emozionanti testimonianze artistiche dell’uomo primevo immerso nella paleostoria – suggerendo così un ricorso a un saggio di Carlo L. Ragghianti – ma già rivolto al futuro remoto. Quel che più conta, alla fine, è che ho appurato che nei dispositivi di Paolo Borghi l’umano e il divino, la natura e la geometria, le armonie musicali e plastiche, la danza, quant’altro, vengono a costituire entità in cui, direbbe Parmenide, quello che appare, è l’Essere.
Ecco allora che quest’ultima rivelazione conferisce uno statuto preciso alle sculture di Paolo Borghi: esse, scrive per me, nel 1982, Ragghianti, sono, come ogni opera d’arte, “esseri viventi” con cui condividere il mondo.
Tavola gratulatoria & nota bibliografica
I debiti accumulati sono molti, mi limiterò tuttavia a ringraziare Paolo Borghi, lo scultore, e sua figlia Irene. Oltreché alcuni autori di cui do, in ordine sparso, essenziali referenze bibliografiche: Orlando Figes, La danza di Natasa. Storia della cultura russa (XVIII-XX secolo), Einaudi, Torino 2008; Carlo L. Ragghianti, L’uomo cosciente. Arte e conoscenza nella paleostoria, Calderini, Bologna 1981; C. L. Ragghianti, Arte essere vivente (dal diario critico 1982), Pananti, Firenze 1984; Ernst H. Gombrich, Antichi maestri, nuove letture. Studi sull’arte del rinascimento, Einaudi, Torino 1987; Cesare S. Maffioli, La via delle acque (1500-1700). Appropriazione delle arti e trasformazione delle matematiche, Olschki, Firenze 2010; Hannah Arendt, La vita della mente, ed. it. a cura di Alessandro Dal Lago, il Mulino, Bologna 1987; Bruno Reichlin, Dalla “soluzione elegante” all’ “edificio aperto”. Scritti attorno ad alcune opere di Le Corbusier, a cura di Annalisa Viati Navone, Mendrisio Academy Press-Silvana editoriale, Mendrisio-Cinisello Balsamo 2013; Karl R. Popper, Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, a cura di Arne F. Petersen con Jorgen Mejer, ed. it. a cura e con Prefazione di Fabio Minazzi, Piemme, Casale Monferrato 1998; Joseph Rykwert, La colonna danzante. Sull’ordine in architettura (1996), Libri Scheiwiller-24Ore, Milano 2010; Paolo Portoghesi, Natura e architettura, Skira, Milano 1999; Fritjof Capra, L’anima di Leonardo. Un genio alla ricerca del segreto della vita, Rizzoli, Milano 2021; Evandro Agazzi, L’oggettività scientifica e i suoi contesti, Bompiani, Milano 2018; Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2001.
Rolando Bellini