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Nella scultura di Paolo Borghi il primo elemento che, con la sua evidenza, subito colpisce e affascina, dandole un’originalità molto sprofondata nel nostro tempo, è un intricato nodo culturale, in cui vengono praticati innestiformali e iconografici di provenienze diverse, e soprattutto di cronologie disparate. Quasi tutti i commentatori hanno riconosciuto il lontano archetipo di una classicità, rivissuta non solo come pensiero e come immaginazione, ma pure come forma. I corpi femminili e maschili, per lo più stretti in coppia, che sono protagonisti di questa scultura, nascono armonici, torniti, forti, longilinei, secondo una reinvenzione di memoria classica, e con una meravigliosa sicurezza formale. Come nella scultura classica i corpi sono spesso awolti da panneggi. Ma le pieghe che ne indicavano là il ritmo calmo e reale, diventano nella scultura di Borghi tanto fitte da risultare inquietanti e tanto prolungate da dare l’awio a un processo di metamorfosi. Il mito entra in questa scultura con le sue radici classiche, e con la sua simbologia moderna.

Questa memoria di classicismo, nel suo lungo tragitto, nella sua reinvenzione, nella sua novità, si giustifica come atto romantico, secondo un processo già esperito nell’Ottocento; e come forma di inquietudine drammatica, secondo una concettualità contemporanea. Il riferimento a Bocklin, che troviamo sia esplicito nell’uso concettuale, appunto, e simbolico de L’isola dei mortz; sia come ripresa dei motivi di rocce, cipressi e costruzioni, da Rovine sul mare a Villa sul mare, ne è una spia. Infatti queste, di Bocklin, sono tra le opere più misteriose, incantate, sature di uno Stimmung malinconica, dolente e amorosa, che la cultura occidentale ci abbia dato. E depositano ambiguità e spiriti neo-romantici nell’opera di Borghi. Ma a temperar le memorie classiche e romantiche, vi vedo poi entrare elementi, formali soprattutto, di Manierismo, di quello originario cinquecentesco: il distendersi longilineo dei corpi; l’eleganza dei gesti, degli accordi, delle congiunzioni; la raffinatezza di ogni cosa, dei nudi, delle vesti, delle mammelle che appaiono sotto la trasparenza della stoffa. L’invenzione geniale e la forza di Borghi stanno nel fonde re tutte queste suggestioni culturali entro un’opera che, pur conservandone frammenti di spirito e di atmosfera, le annullano nella sua completa originalità. Abbiamo descritto, nell’insieme, solo uno degli elementi che formano tale opera. Infatti quell’originalità nasce dall’unione con l’altro elemento, che è la natura. Difficile trovare un artista che introduce la materia e gli oggetti naturali nell’opera scultoria con la forza e presenza, con la necessità, che hanno le sue figure e ogni altro oggetto; che sappia così costantemente considerarli fusi nel complicato pensiero dell’opera; che unisca così strettamente, e con reciproca esaltazione di significato, cultura e natura. Fin dall’inizio Apollo sorge, nella luce perfetta del suo corpo, dalle rocce ricoperte di alberi, dalla terra vera, e umanizzata in figura distesa di cui si intravedono sporgenti solo le gambe. Archi di pietra, cipressi, gruppi di cespugli, fluire di fibre vegetali, catene di montagne, alberi vari, grandi rocce solcare da fratture, da erosioni, da tagli, sostengono, avviluppando le figure umane e mitiche, e in molti tratti si fondono con loro a formare l’ unica materia di una sostanza che solo l’invenzione poetica può produrre. Il mito rientra nella natura, vi ritrova la sua primaria abitazione. Gli eroi sono connaturati alla roccia; come il Polifemo di Poussin e il Prometeo di Bocklin.

La metamorfosi presiede all’evento, già in Apollo e Da/ne che è un’opera centrale di Borghi, nel 1987; ne ha scritto Calvesi: “Dafne è il tempo, che non si può trattenere; è il mistero del tempo, che non si può penetrare; è la meta di verità che l’uomo non potrà mai possedere”. Apollo e Da/ne è un’opera simbolica, paradigmatica, della trasformazione dall’umano in naturale, è la tensione verso il naturale, è l’ingresso nel tempo, metamorfosi nella natura che è il volto del tempo. Ma in seguito nelle opere di Borghi la natura è conquistata e si fonde con l’umano. A volte le mani distese, delicatamente prementi entro la materia, le si connaturano e sembrano continuare con lefibre terresti o vegetali come se fossero radici. Quasi sempre nelle opere più recenti i panneggi, le vesti che fasciano le figure femminili, moltiplicano le pieghe, le ondulazioni, sembrano scorrere sui corpi come acque e poi continuare ingrossandosi come fiumi; o svilupparsi, inverdirsi, come fibre e rami sottilissimi, e trasformarsi poi in fitta, ampia, vegetazione. Spesso pieghe di vesti, onde di fiume, fibre di piante, si schiacciano contro i corpi, o si accavallano, si intrecciano, come battute dal vento. Sembra che Borghi scolpisca il vento. A volte poi si assiste ad un’ulteriore metamorfosi, da vegetazione in pietra e in roccia, in blocco possente, solcato da dirupi, immobile e finale. Che sia scogliera, rupe o montagna, che serva di sostegno agli alberi, alle figure, a una città o a un’unica costruzione, che sia l’esito finale della metamorfosi materica, sempre negli ultimi anni un grande blocco di pietra o di roccia è componente primario di ogni complesso sculturale. Borghi ama la montagna ed ha con lei un rapporto diretto, di contatto, come scalatore. La montagna evoca il sacro; per gli spiriti che la contemplano possiede una sacralità misteriosa, indefinibile, lontana; ha il senso del primordiale; come un’opera immensa scolpita dai venti, dalle intemperie, dal tempo; come un antico monumento. Può essere la pietra dell’Alpe; può essere la Dolomite pallida e grigia, rosa nella sera; oppure le mesas di Professar Valley e le grandi cattedrali rocciose di Monument Valley nei western di John Ford. Se vissuta a contatto, parete sterminata di fronte a chi la scala, offre la irregolarità degli appigli, degli anfratti, delle sporgenze, delle ombre, e la varietà delicata dei colori.

La montagna, la pietra, la roccia, così sentite e capite sono costanti, dalla parte della natura, nell’opera di Borghi. Una delle sue ultime sculture, grande, potente, nei toni variabili della terracotta, di cui si può vedere un modello in misura ridotta, è intitolata Le Alpi. Una coppia di uomo e donna sta sdraiata e unita sopra un paesaggio, che si sviluppa nella profondità fino a terminare in una lunga catena di montagne, più chiara nella lontananza a confronto della rosatura intensa che la terracotta dà agli umani. Non conosco opere dove il sacro e il naturale, il mitico e il reale siano così in armonia uniti; pur vista ancora incompiuta mi sembra già un capolavoro. E se guardo poi, in alcune altre di queste opere (Sulla scogliera, L’ultimo Esperors, Sopra il paesaggio, Nel vento di Tracia), oltre le figure e la natura, la presenza, sempre discreta e apparentemente marginale, di costruzioni, gruppi di case, piccoli paesi che sembrano non abitati, mi viene alla memoria un altro grande americano, Anse! Adams, fotografo e poeta della natura, che ha ripreso, modesti e abbandonati entro la maestosità del Canyon de Chelly in Arizona, alcuni antichi insediamenti indiani. Il senso che nasce dall’una e dalle altre opere è: abitare la natura. Ma l’opera di Borghi non ha finito di meravigliarci, poiché ci mostra un’altra originale invenzione: quei corpi che, per lo più accoppiati, la popolano come sua parte più reale e mitica a un tempo, corpi di dei, di eroi e di uomini, sono soggetti a un processo di fusione, che contraddice la realtà, e non richiama il mito; avvengono fa tti illusionistici e inattesi. Spesso può accadere che uno stesso arto, quasi sempre una gamba, appartenga contemporaneamente all’uomo e alla donna, cosicché da un particolare p unto di vista solo tre sono gli arti; può accadere che i due corpi siano fu si in uno fino ad una certa altezza, come se nascessero dalia stessa matrice, d alla stessa materia; p uò accadere che abbiano in comune altre parti. E un uomo a cavallo che finisce la sua corsa contro una roccia, nell’opera Cavalcata interrotta, visto da un lato è cavaliere e dal lato opposto centauro; all’interno della stessa figu ra si compie una parziale metamorfosi con l’esito di una fusione tra uomo e cavallo; mentre c’è già inizio di fusione, o di penetrazione, tra gli arti del cavallo e la roccia. Così la molteplicità dei punti di vista che si hanno, come normalmente avviene, aggirando una scultura, non solo, qui, si riproducono, ma offrono figure diverse, svelano illusioni, danno immagini irreali, moltiplicano gli effetti e i significati della scultura. La scultura, oltre che mitica, simbolica, narrativa, reale, si fa anche fantastica.

Questo processo non deriva n è dal movimento del Futurismo, n è dalla” mostruosità” del Surrealismo, nè dalia magia del processo alchemico. Solo quest’ultimo forse, dei tre, è più probabile, sebbene parziale, fonte di riferimento, come ha indicato Portoghesi. Ma credo faccia parte del generale processo cui tutta la scultura di Borghi è sottoposta; quello della fusione. Il mito si fonde con la realtà, l’umano con il vegetale, la donna con l’uomo, la veste con la pietra, il bambino con la madre, il cavaliere con il cavallo, la materia con la poesia. La fusione avviene attraverso la metamorfosi, ma ne è l’esito contraddittorio e unitario; rappresenta l’unità della vita, della materia, della natura; è il grande moto armonico del mondo. L’ultima causa di ammirazione, non più per interpretare ma per constatare, è di fronte al rapporto che ha Borghi con la materia. Tutti gli scultori devono avere un contatto con la materia, poiché è la sostanza stessa della loro arte; devono saperla scegliere e usare, poiché questo è il senso della loro tecnica; devono sa perla violentare, modificare, sublimare, poiché questo è il loro linguaggio. Ma amare la materia è qualcosa di più e diverso. Paolo Borghi è di quei veri, ed estremi, scultori che amano la materia. La cambia secondo le sue intenzioni e necessità espressive e poetiche; la modifica, la adula, ne sa trarre accordi diversi come da uno strumento musicale; la domina con innata facilità; la lavora direttamente, a contatto, con il solo tramite dell’utensile che usa; la tocca, l’accarezza, la leviga, ne modifica l’ opacità con cere di sua invenzione che lasciano riflessi luminosi continuamente rinnovabili; la colora dall’interno con processo mediato, usando, ad esempio, per la medesima opera, crete diverse che alla cottura prendono diverse colorazioni o includendovi sostanze chimiche che quella colorazione modificano ed esaltano; ne movimenta minutamente, cesellandola, la superficie. Questa del cesello è una sua particolare dote e passione, derivatagli dal padre Stanislao, che è stato un finissimo e ricchissimo cesellatore; così nelle sue opere i corpi hanno sottili vibrazioni, delicate ombreggiature, accenni di rientranze e di sporgenze, che li rendono vivi oltre gli accorgimenti della scultura, e i suoi panneggi hanno finezze di pieghe e di increspature, come prodotte dal vento sulle acque. La cesellatura diventa ormai quasi solo un atto delicato d’amore per la materia; l’atto d’amore finale verso l’opera.

Roberto Tassi

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