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Da anni Borghi persegue, con la sua scultura, la de-costruzione del mito come obiettivo di una ricerca plastica originalissima che si definisce nella temperie dell’arte concettuale e si orienta verso uno scontro coraggioso, senza mezzi termini, tra l’assolutezza dell’immagine e la ricchezza del processo intellettuale che la origina. Se si dovessero scegliere delle immagini per illustrare “Le nozze di Cadmo e Armonia” di Roberto Calasso, il libro più profondamente “attuale”, scritto in Italia nell’ultimo decennio, solo le immagini di Borghi si rivelerebbero segretamente congeniali. Intorno alla metà degli anni ’80, muovendo dalle premesse di un classicismo romantico, memore di Boklin e di Savinio, Borghi giunge alla sua maniera più personale e nello stesso tempo più improntata all’ideale classico: una soffice grazia nel trattamento delle superfici che si lega al continuo riemergere di un tema plastico – la fusione di due o tre corpi viventi che posseggono almeno un arto in comune – vero e proprio risultato alchemico di una fusione in cui rifulgono consumata abilità tecnica e ostinato rigore. Questi avvicinamenti di corpi ben composti rifuggono dalla finitezza e dall’autosufficienza. Dove le membrature rimangono incompiute, il marmo germina paesaggi. Alberi e case contrappongono alla vita unitaria dei corpi il “vivere” additivo del paesaggio, inteso come rivincita del caos o almeno di un ordine meno rigoroso di necessità di quello organico che governa la figura.

L’apparente piacevolezza di questa scultura, così carica di accenti drammatici, ma così proclive a cimentarsi nel trattamento delle superfici con i momenti classici della “grazia” scultorea (da Della Quercia a Michelangelo a Bernini), non doveva però trarre in inganno sull’indirizzo della ricerca di Borghi che utilizzava la “grazia” come ingrediente di una miscela esplosiva, il cui vero centro motore era non tanto la nostalgia del mito quanto la constatazione che la rilettura “moderna” del mito, a partire da Freud, è momento indispensabile della autocoscienza critica del nostro tempo. Non meraviglia quindi che Borghi abbia improvvisamente abbandonato la grazia a vantaggio di una forza che sprigiona dalla materia e pervade corpi umani non più racchiusi nello spazio ma avvolgentisi gli uni negli altri, gli uni sopra gli altri, con membra che si dilatano e si scontrano, spalle gigantesche che arginano, braccia tese e teste scavate nello spazio rese con una materia che pare lava bruciata.

Siamo di fronte a una classicità sconvolta alla quale l’arte modera ci ha abituati, da Klimt a Klinger a Moreau. La materia vibrante d’altra parte fa pensare alla scultura di un altro “classico” irriducibile, il grande Arturo Martini. Se questo classicismo apocalittico potrebbe far pensare a una nostalgia del simbolismo che ha inaugurato nel nostro secolo “alla ricerca degli eroi perduti”, Borghi si muove invece lungo una linea più audace che sente il fascino della maniera grande degli anni ’30 e delle contaminazioni concettuali. Come arte di fine secolo quella di Borghi è veramente – e con risultati di grandissimo rilievo – un’arte che attraversa corsi e ricorsi, ritorni e abbandoni, riuscendo a darci una sintesi straordinariamente matura del grande rovello che ha alimentato tutto un “fianco sanguinante” dell’arte moderna, quello del rapporto con la storia o dell’”arte allo specchio”, per usare una felice formula di Maurizio Calvesi. Per chi riteneva che la ricerca strutturale dei corpi compenetrati fosse una sorta di gioco accademico in cui la grande inventività tecnica di Borghi si esauriva, questa profonda modificazione del suo fare può servire di riprova al fatto che il problema di Borghi non è riducibile a un problema tecnico, anche se la tecnica della scultura è il suo modo d’essere e di pensare. Borghi insegue una forma significante che attraverso il mito esplora condizioni attuali; compie, ogni volta che si avventura alla ricerca di una storia, un viaggio circolare che lo riporta dal passato al presente e gli consente di esprimere le sue predilezioni, di arricchire il suo mondo fantastico, di acquisire sempre maggiore esperienza nella resa della materia e della luce. Rientra in questo moto circolare la compresenza nella stessa immagine della materia plasmata, antropomorfa, e della materia enunciata astrattamente come volume, come ostacolo, come residuo incombusto di una operazione che non è quella ideale di liberare la materia dalla forma e quindi di scoprire immagini all’interno dei blocchi chiusi, ma quello di ancorare le figure “positive” colte nel movimento a una figura “negativa”, inerziale, che le riassume, le giustifica, dà loro il senso della necessità.
Paolo Portoghesi

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