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Sono due le componenti principali della ricerca plastica di Paolo Borghi. Da un lato una sensibilità classica che si traduce in forme levigate e precise, accuratamente raccolte nei confini dei propri perimetri. Dall’altro una vocazione anticlassica di ascendenza barocca e liberty, che si esprime in una lievitazione continua dell’immagine e, forzandone l’involucro, lo dissipa in gonfiori, in tensioni, in dinamismi. Il discrimine tra finitezza e infinito si fa allora sottile, e ambiguo. L’una si versa nell’altro in una stupefatta metamorfosi. Apollo e Dafne del 1987 è, in questo senso, una delle opere più significative di Borghi. Il rapporto con la mitologia, la rilettura del mito greco e berniniano, indica una volontà ostinata di “uscire dal Novecento”, per usare l’espressione con cui Stefano Zecchi apre il suo saggio La bellezza. Dunque un ritorno alla classicità, mediato soprattutto da De Chirico e Savinio, dove gli emblemi tradizionali della grazia annullano idealmente quelli moderni dell’anti-grazioso.

Ma, al di là di questa allusione teoretica, Apollo e Dafne esprimono soprattutto un’idea di metamorfosi. Dafne, che raggiunta da Apollo si muta in alloro, è il simbolo stesso della materia che, toccata dall’artista, lascia affiorare entro la propria natura una natura vegetale e minerale. Così le categorie che razionalmente applichiamo alle cose, la divisione dei generi e dei regni, non hanno più senso, se non convenzionale. La selva di bronzo da cui si libera il corpo di Apollo; il giardino di terra di cui è intessuta la veste della dea; la pietra che si confonde con l’abbraccio della coppia cosmica; la cavalcata che si infrange nell’architettura della roccia sono aspetti di una identica sostanza, di un respiro universale che è faticoso scindere. E inutile. Questo rivela l’enigma dell’ora allo scultore-filosofo. Al quale non resta che accordare la propria innata sensibilità cromatica con questa rivelazione, accostando al candore del marmo i toni ocra e biondi delle terre, i verdi d’alga dei bronzi, i segreti delle patine e delle temperature. Nelle opere più recenti il registro narrativo di Borghi ha gradualmente abbandonato la misura della grazia (come pure l’ironia, che ne costituisce la dimensione uguale e contraria) avvicinandosi alle soglie di una epicità più drammatica, più tesa. Ma questa tensione, anzichè esasperarsi in scompostezze esteriori, si risolve dentro la pelle di ogni opera, mescolando il moto ondoso dei corpi con il franare degli anfratti, l’ansia delle chiome degli alberi con quella delle chiome femminili, l’ergersi delle membra con l’inerpicarsi degli arbusti. La tensione espressiva allora non si identifica con la deformazione, ma con l’inafferrabilità. Quell’inafferrabilità della materia e della forma, che è poi l’inafferrabilità stessa della vita.

Elena Pontiggia

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