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Che cos’è scultura? Che cosa, in particolare, per un artista, uno scultore di lungo corso qual è Paolo Borghi, con riferimento soprattutto alla sua produzione dell’anno in corso, il 2016? Proviamo a mettere preventivamente da una parte (e quasi dimenticare) le esternazioni sulla scultura e le arti dell’ultimo Martin Heidegger, benché Borghi sia, a tutti gli effetti, un artista maturato all’interno della post-modernità, affine in molto al fare architettura di Paolo Portoghesi, con il quale, difatti, ha molto e felicemente collaborato già in anni non sospetti. Al tempo stesso, proviamo pure a mettere da parte quanto gli è stato riconosciuto dalla critica nell’intero arco di una lunga carriera professionale, con tutto il suo carico di esperienze e di valori, di committenze pubbliche e private. Accantoniamo pure lo zaino colmo di tracce o memorie pregresse: giacché la crisi del linguaggio critico si infrange e manda in pezzi ogni sua residua pretesa al cospetto di queste opere di Paolo Borghi, queste sculture esibenti duplici presenze, queste forme afigurali e figurali, queste essenze plastiche di una realtà eclatante e al tempo stesso di una irrealtà esclamativa. Inoltre, – come non ammetterlo? – Borghi ha il pregio, raro, di realizzarsi e affermarsi come un “inattuale” nietzscheiano e così le sue fenomenologie artistiche, per dirla con Husserl, si proiettano mitopoieticamente oltre ogni possibile vedere, in un altrove indicibile. Al di là di ogni possibile dire per penicilla di ieri, di oggi, di domani. Un vuoto incompleto ai confini della realtà in cui queste fenomenologie prendono forma e si acquartierano; incompleto poiché abitato da non-cose e in cui la non-cosa che incarna l’atto fondativo della scultura borghiana occupa e dà sostanza vitale o forma al segno e con esso, in progress, al godimento (post-freudiano) che accende la creazione e dunque dà senso alla creatività artistica di Paolo, generativa i nuovi enti, le essenze scultoree sue. È in questo scenario sospeso tra pieno e vuoto e posto ai confini della realtà che prende vita, allora, questa scultura. È così? Ma come posso descriverne l’esito, l’identità sua con particolare riferimento a ciò che va realizzando questo artista nel corso del 2016, nel mentre va ripercorrendo e reificando quasi ogni pregressa avventura plastica, come? Non può soccorrermi più di tanto- perciò vi ho rinunciato programmaticamente – il background dell’artista, il portato dei suoi molti nutrimenti culturali che corrono dai Greci antichi (Prassitele, Fidia…) ai medioevali e ai moderni, il suo insistere curioso su Tino di Carnaino e poi su Donatello, lo sfuggire invece a Michelangelo che è recuperato attraverso Bernini, l’appassionarsi massimamente per Antonio Canova e da lì il predisporsi, anima e corpo, a incontrare Daumier e Maillol, prim’ancora l’amato Rodin e, a sorpresa, la sua vittima, Camille Claudel; a seguire, i più contemporanei tra cui dominano due o tre figure: Arturo Martini e Manzù per parte italiana e Henri Moore, per parte inglese. Vittorio Tavernari e Vangi, o ancora, sempre per il fronte italiano, Savinio e De Chirico e, a debita distanza, per quello europeo incontri fugaci con Bocklin, Klinger ma anche Moreau e forse Gustav Klimt. E poi ancora, in ordine sparso, Buler, Hepworth, Chillida. Diffida di Marino Marini quest’attuale e ultimo Borghi tal quale l’esordiente Paolo Borghi, si allontana volontariamente da tant’altri ma sottotraccia, attraverso l’inaspettato filtro offertogli dall’amico Vangi o, in alternativa, dall’amico Tavernari (entrambi lo hanno visto ragauo),

che restano su tutti i principali interlocutori degli esordi ormai lontani e che, dunque, gli sono stati in qualcosa maestri. Compie nuove scoperte e accende altri confronti: per esempio, con le sculture a più mani di Sironi, con quelle di Le Corbusier condivise con Nivola o Savinà. Ed ora, maturo e affermato artista, eccolo recuperare reiteratamente, come fosse richiamo ideale allo scorrere d’un fiume carsico, il Fontana plastico dei vent’anni quando si ama ogni sperimentazione e, al seguito, pochissimi altri quella stagione “informe!” che molto deve proprio a Lucio Fontana, perlomeno in Italia, come per esempio il drappello romano e internazionale affiliato alla galleria Spazio di Luigi Moretti; altri ancora dediti piuttosto alla figura. Al ritorno d’essa sui danari dell’arte scultorea del secondo e ultimo ‘900, implicando anche artisti meno noti o ancora non ben inquadrati criticamente come per esempio Jorio Vivarelli o Venanzo Crocetti, soprattutto il drappello degli scultori – come il pittore scultore Barni -che fra cadute e riscatti inopinati hanno fiancheggiato la parabola affatto pittorica rilasciata dalla cosiddetta Transavanguardia italiana, in linea con la selva dei recuperi evidenti e clandestini operati dal decostruzionismo, dagli spaesamenti della smemorata post-modernità. Prelievi o riverberi, rimandi filtrati ed estraneanti che conferiscono vibrazioni e modulazioni di pelle alle sue opere, modellano in questo fare di Borghi distorsioni o meglio fantasie anatomiche che attribuiscono alle figurazioni un’altra e nuova identità, esercizi formali inaspettati e trasgressivi che acutizzano ogni allontanamento dal dato di realtà e anzi meglio: ne polverizzano i teoremi. Proviamo a insistere in questa direzione: vale a dire nell’analisi del voluto allontanamento da ogni mero rispecchiamento della realtà così come da ogni residuo del Moderno. Scaviamo dunque in questo estraneamente progettuale e fattuale di Paolo Borghi che lo allontana rispetto alla storia e ai suoi alimenti, alla realtà e i suoi comandamenti, per cavarne piuttosto una dimensione trascendentale, intrisa di istanze neo-platoniche in cui i concetti plastici ch’egli ama realizzare, la nuda e cruda schiettezza ideativa loro e l’esito fisico o materiale di tutto questo trova un compimento. Diresti quasi che l’attuale e ultimo Paolo Borghi sia concentrato nella realizzazione e nell’affermazione di un linguaggio formale a se stante, un linguaggio neoplatonico quale si era mai veduto prima e che sa manifestare, nell’incontro degli occhi (di leonardesco conio) con ogni singola scultura di Paolo Borghi, nel dare sembiante e corporeità statuaria a un paratesto (alludo a me stesso, uno scritto del 1995), quella che Friedrich Nietzsche chiamava una peripezia.

Rolando Bellini

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