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Una bellezza maestosa, dominata da trionfanti personaggi, abita l’incedere plastico di Paolo Borghi. La sua mano d’artista segna nei contorni l’infrangersi del rapporto spazio-tempo e i protagonisti del suo narrare si presentano al nostro sguardo. Il corpo di opere esposte sono frutto di una ricerca maturata nel tempo, lentamente plasmata con abilità e sapienza tecnica e poi divenuta totalizzante dalla metà degli anni ’80. L’uomo come artifex come colui che opera sulla materia sperimentando e documentando la propria essenza nell’attenta cura del modellato. Questa è la sperimentazione operata da Borghi. Lo scultore ha saputo mediare la conoscenza di un ricco passato con la volontà di riviverne il mito nell’attualità del presente. Nell’impianto monumentale delle sue opere, anche in quelle che non rispettano grandi dimensioni, l’artista traccia le linee più profonde della propria esistenza intellettuale. L’impianto figurativo si sviluppa in un alternarsi di piani, che si definiscono in spessori morbidi, in superfici lisce e compatte, in frastagliate diramazioni aggettanti. È un continuo protendersi nello spazio per sviluppare l’immagine in cui ritorna il ciclico rincorrersi delle stagioni. Nella storia, vichianamente intesa, si manifesta il recupero del verum delle forme mentali che si cela dietro al factum. Borghi ripercorre la tradizione artistico-letteraria e la carica di forte intensità simbolica. Tra i miti primo fra tutti si afferma quello di Apollo e Dafne, che diviene nodo germinante della sua produzione artistica. L’impianto scultoreo si rifà ad echi di un classicismo remoto, ma ancora vivo e pulsante nella sua essenzialità materica. Lo scorgiamo nei panneggi, che avvolgono in un irruente abbraccio i corpi, in cui ancora vibrano i lontani sussulti di una figurazione svincolata dal concetto di rigorosa euritmia.

La robusta struttura della figura umana spesso si interseca plasticamente ad un’altra, in un costrutto di logica conseguenza: la materia modellata traccia campiture vigorose in un continuo confondersi di profili, ora selvaggi e scabri, ora urbani e geometrizzanti. L’immediato approccio visivo è carpito dai corpi vestiti di tangibile morbidezza, che fu già di Fidia nelle statue mutilate di Dione, Hestia e Afrodite. Le sculture di Borghi si lasciano ricoprire di questo classicismo, estatico nella forma, per trattenere una più profonda e sofferta sensibilità romantica: è la consapevolezza di dover ricorrere all’allusività del linguaggio per poter sfiorare i misteri della trascendenza. Ed è proprio questa intuizione che con fremito incalzante sostiene o trattiene le donne e gli uomini di Borghi. È l’attimo che si carica di cosmica drammaticità nel momento in cui termina l’illusione e si rievoca il mito: la “Scogliera di Saffo”, 1996 terracotta, uno scoglio imponente e precipitosamente scosceso, in cima al quale si ergono come espressione di una duplice volontà, due figure femminili simbiotiche, definite da una connotazione cromatica che ne sottolinea l’intensità della torsione. Soggetti quali “La stabilità dello sguardo”, 1996, o “Il Nodo sospeso”, 1997, acquistano nell’opera di Borghi valenza contemporanea, scivolando tra le levigatissime e sensuali melodie plastiche berniniane, dove pittura, scultura e architettura si fondono in un insieme di aulica scenografia, fìno a giungere in un incessante gorgo interpretativo al grande insegnamento di Arturo Martini: cogliere nella favola e nel mito la verità più profonda dell’essere insieme alla verità terrestre dell’esistere. La disponibilità di Borghi di muoversi tra la vicenda storica delle forme dimostra un’assenza di soggezione davanti all’autorità della tradizione e ne conferma la volontà di comprendere, nel succedersi delle “follie”, l’importanza del cammino. L’artista impone all’opera la propria intensità creativa descrivendo un’umanità mediata tra possenza vigorosa delle muscolature ed esultanza leggiadra dei panneggi. In questi anni Borghi ha così costruito, in una serie di opere elaborate con grande coerenza, la sua storia di artista e di uomo. Un percorso, il suo, che si definisce in un procedimento plastico fedele alle consolidate tecniche tradizionali: marmo, bronzo e terracotta, insegnamenti che non escludono libertà d’indagine e d’espressione. Ne è testimone l’esasperato equilibrismo di “Canto sospeso”, 1995-’96 dove la figura è trattenuta in funzione di elemento interdipendente del paesaggio, la compostezza anatomica si pone in modo simmetrico tra pieni e vuoti sostenendo l’intero ordine compositivo. Si afferma così il persistere di una sensualità e di un pathos in cui si coglie il ricordo delle atmosfere paesaggistiche intrise di mitologiche fantasticherie di Arnold Böcklin. L’opera sviluppa una soffusa evanescenza mista di malinconia ed incanto, che afferma come Borghi abbia saputo far proprie le più intuitive espressioni dello spirito romantico, muovendo verso l’arcadico e il mitico. Lo scultore con ansimante partecipazione si appropria delle istanze che dalla Grecia classica si proiettano agli albori di questo fine millennio, le disegna nei corpi che escono dalla materia, che si fanno materia intrecciandosi ancora nei profili di quell’epoca leggendaria in cui l’uomo viveva in intima comunione con la Natura. ”Classicismo – scriveva Savinio- non è ritorno alle forme antecedenti prestabilite e consacrate da un’epoca trascorsa: ma è raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica, la quale non esclude affatto le novità d’espressione, anzi le include, anzi le esige”. E a queste riflessioni, alle immagini tardo rinascimentali a cui aveva guardato De Chirico guarda anche Borghi. Come guarda alla tradizione cinquecentesca intrisa di quel manierismo che sviluppa la linea serpentinata esasperandone le articolazioni michelangiolesche. La maniera affiora nella terracotta policroma “Natura”, 1996, è l’anatomia maschile, è l’atto volto a contrastare il peso delle masse che trattengono le due figure. Il voluttuoso rincorrersi dei protagonisti si esprime nell’annodarsi dei corpi, nel pudico e compiacente liberarsi dei sorrisi, nell’intrecciarsi degli arti. Alle spalle un solido impianto architettonico è definito da un contorno fermo e misurato, che poggia sulla dura compattezza della roccia: 1’ondulato declinare accompagna il verso imposto alla materia dall’uomo.

E in una recentissima opera come “L’albero del mondo” sembra trasferire in una dimensione onirica l’incedere leggerissimo della donna. Un’estensione verticale tende a spiritualizzare la forza del concetto, mentre il paesaggio, abitato, si protende in avanti quasi a rievocare un rituale votivo. La grande abilità tecnica di Borghi si esprime ancora in “Rotazione sospesa”, 1996. I due corpi sembrano essere trasportati in intima comunione in quel continuo fluire della materia: è un passaggio, un attraversare il magma tellurico che ha ricoperto più volte la storia dell’uomo, annientandone il grido per immortalarne il sembiante. Quelle tensioni delle origini occulte spingono verso il profondo e ci lasciano increduli di fronte a “La Venere dei cristalli”, 1996, è una perfetta sincronia tra gesto, cromia e materia. La forza immanente è trattenuta dal braccio che afferra la divinità pagana mentre la mano stringe virilmente il pugnale. La decisione del gesto sembra, comunque, risolversi nell’intensità muscolare dell’avambraccio. Un meticoloso sovrapporsi di volumi nasce direttamente dalle membra di Venere in un nuovo e prezioso riconfermarsi della incessante trasformazione propria dell’essere di Natura.

Paolo Levi

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